Gea in trasferta
Due giorni ad Hangzhou AKA La due giorni di Hangzhou
Il primo Ottobre la Cina festeggia la nascita della Repubblica popolare ad opera di Mao. E festeggia con una settimana di vacanza: pressoché gli unici sette giorni consecutivi di vacanza che la maggior parte dei lavoratori possono godere.
Scuole chiuse, uffici per lo più chiusi, treni, aerei, autobus, pullman che straripano di persone; tutti in viaggio per raggiungere le famiglie, visitare località turistiche, oppure, se si è espatriati, in fuga verso i lidi della Thailandia, delle Filippine o di qualsiasi mare, città, loculo che non sia invaso dai cinesi.
Sembra cinico, ma così è... oppure, se volete vederla sotto un altro punto di vista, abitando già in Oriente, bisogna approfittare per vedere tutti quei luoghi che da qui sono facilmente raggiungibili, e che magari mai più vedremo in nostra vita.
Oppure – ancora – si fa come i nostri eroici Seghedoni, che, risicando tre, dicasi tre, giorni di ferie del capofamiglia precettato dall'onnivoro lavoro, prenotano un albergo ad Hangzhou, a circa 150 km da Suzhou, anch'essa antica capitale imperiale, anch'essa adagiata sulle rive di un ridente lago, e partono in esplorazione.
Un po' di patema per l'incognita albergo, c'era, lo confesso; Booking è un sito abbastanza affidabile, ma c'è sempre il dubbio che la sòla incomba; fortunatamente, dopo un viaggetto in auto di un paio d'ore, dopo essere usciti dall'incubo della strada principale della città, completamente sventrata per la costruzione di una sopraelevata, raggiungiamo una zona di condomini e banche e, slanciato e addobbato di un bellissimo logo con corona, vediamo il nostro albergo.
Check-in senza problemi... il tempo di appoggiare le valigie e ci infiliamo su un taxi, armati – ebbene sì – del biglietto da visita di un ristorante italiano caldamente consigliatomi da un'amica.
Mangiare dobbiamo mangiare, il locale è posto sul lago, lungo le rive del quale vogliamo passeggiare, vista la giornata discreta, quindi... perchè no?
Come spesso accade qui, dove tutto cambia molto velocemente, quando raggiungiamo il posto, dopo un viaggetto breve, ma intenso, nel mezzo di un cordone unico di macchine, biciclette e persone, tra clacson, grida e scampanellii, il ristorante è chiuso, non importa se definitivamente o per ristrutturazione. Il Seghedoni senior è affamato e nervoso, il Seghedoni junior è affamato e piagnucoloso, così entriamo nel primo locale a portata...
... il nome “western” viene contraddetto – piacevolmente – dagli arredi molto cinesi, e lo stesso menù è un po' un percorso ad ostacoli, ma quando arrivano i piatti, abbiamo la piacevole sorpresa di assaggiare una specialità davvero squisita, il Dongpo Pork... in una elegante ciotolina di ceramica verde giada, arriva un blocchetto di carne di maiale glassata, tenerissima e succosa... la sua bontà ci riconcilia con il prossimo e arrivati al termine del pranzo siamo pronti alla passeggiata panoramica sul lago.
Ora, come già molti espatriati prima di me hanno detto, e molti probabilmente dopo di me diranno, il concetto di “tanta gente” ha un significato tutto particolare qui in Cina. Di fatto, per noi, questa enorme e colorata, chiassosa e a tratti kitch massa umana è stata l'attrattiva principale di queste due giornate. Un po' come se, in fondo, dovessimo fare questo bagno di folla, per sentire davvero di essere in Cina, uscendo per poco da quella che io chiamo la “bolla SIP” (cioè il moderno quartiere di Suzhou in cui viviamo).
Direi che abbiamo fatto il pieno.
Ogni tanto riuscivamo ad intravedere il lago, con le sue miriadi di barchette e battellini sventolanti bandiera rossa; in lontanaza si scorgeva il profilo della pagoda che avevamo in programma di visitare il giorno dopo. Ad un certo punto, davanti all'ingresso del tempio sul lago, confesso, abbiamo sentito il bisogno di un po' di quiete e, dato che tutto il mondo è paese, ed essendo il tempio a pagamento, dentro c'erano veramente poche persone. Così ci siamo regalati una mezz'ora zen, tra pagode, porticati con lanterne, lastre intagliate e l'onnipresente rispetto per il verde, sempre in armonia anche con le costruzioni umane e, addirittura, parte integrante di essa.
Grazie a questo momento “zen” siamo riusciti ad affrontare relativamente indenni il rientro in albergo; non abbiamo pensato ai corollari legati alla massiccia presenza di turisti ad Hangzhou, in particolare alla difficoltà a reperire non un taxi – per quanto in numero non abbondante, comunque ne passavano – ma un taxi guidato da un taxista disposto a caricarci. Vi dirò... ci siamo sentiti discriminati, all'inizio, poi quando abbiamo incrociato lo sguardo di una famigliola cinese lasciata a piedi dallo stesso driver che ci aveva snobbato, allora abbiamo capito che nessuno voleva andare nella direzione che serviva a noi, perchè significava – chiaramente – tuffarsi nell'ingorgo. Un rapido cambio di corsia e un imbucamento in strada secondaria, accompagnato da necessaria botta... di destino, dopo un'ora e mezza ci hanno permesso di guadagnare l'albergo per il meritato riposo.
Il giorno dopo siamo ripartiti, armati di cartina, alla volta della Pagoda delle sei armonie. L'orario abbastanza mattiniero ci ha permesso di godere di un poco di “solitudine”, soprattutto perchè la pagoda è circondata da
un pendio verde e alberato, lungo il quale si inerpica il sentiero che porta alla cima della collina, da cui si può ammirare il panorama; anche se un po' sfiatati, era bello passeggiare nel verde, sentendo i rintocchi delle campane buddiste che arrivavano dalla pagoda. Il resto della giornata è stata veramente un tour de force, perchè ci siamo lasciati attrarre dalla cartina turistica, che prometteva una rilassante passeggiata lungo il percorso che attraversa il West Lake di Hangzhou.
Lo sarebbe stata, rilassante, intendo; la giornata era soleggiata e leggermente ventilata, ormai scomparsa la cappa di umidità e afa delle settimane precedenti, il lago punteggiato di barche a vela, le isolette, i fiori di loto... il percorso ombreggiato dagli alberi... se non fosse, che, appunto, più che una passeggiata è stato un farsi trasportare quasi gomito a gomito dalla marea di persone che – ha del miracoloso – camminavano in entrambe le direzioni, quasi senza soluzione di continuità... All'ora di pranzo avevamo bisogno non solo di cibo, ma anche di un po' di silenzio... che banali... il food-radar che caratterizza il consorte, non ci ha tradito e abbiamo trovato una trattoria non invasa da avventori.
Quando la cameriera ci ha messo sotto il naso il menù non sapevamo se ridere o piangere, perchè era solo scritto in ideogrammi cinesi, senza fotografie... ma il dito salvifico della signorina ci ha indicato il menù assaggio – o quello che ci auguravamo fosse tale e abbiamo detto “Duì”. Risultato: lascio parlare la fotografia.
Il cibo, il buon cibo, ha un effetto veramente bizzarro, perchè - usciti dal ristorante - abbiamo deciso di fare i turisti fino in fondo... e abbiamo fatto la fila per il giro sul battello; poi abbiamo fatto la fila per fare il giro dell'isola; poi abbiamo fatto la fila per riprendere il battello; poi abbiamo fatto la fila per riuscire a guadagnare l'uscita dalla zona panoramica del lago. E dulcis in fundo abbiamo atteso – vedi giorno precedente – una quantità di tempo rasente l'eternità per il taxi.
Insomma, avrei dovuto scrivere una bella descrizione di Hangzhou e della sua architettura nonché patrimonio paesaggistico, ma questa volta ha predominato il lato “umano”... e, a quanto pare, non abbiamo imparato nulla, perchè qui si sta parlando di visitare Pechino durante il prossimo Capodanno cinese. Ma questa sarà un'altra storia...